L’invenzione della mafia

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Mi sono imbattuto in questa recensione del libro “La mala setta. Alle origini di mafia e camorra 1859-1878” dello storico Francesco Benigno, che mi ha permesso di scoprire questo testo, pubblicato appena un anno fa, che sconoscevo.

La recensitrice ci informa che il testo tratta delle “pratiche poliziesche utilizzate per garantire l’ordine pubblico, durante il Risorgimento e la prima stagione dell’Unità italiana”.

L’autore sosterrebbe che lo “scopo principale dei governi che aspirano alla soluzione moderata del processo risorgimentale è quello di garantire la tranquillità sociale. Di fronte alla sua fondamentale importanza ogni mezzo per controllare le piazze diviene lecito. Svaniscono gli scrupoli nel servirsi di malviventi scaltri nel doppiogioco: «bisogna costruire l’ordine mediante il disordine, contrapporre sovversivi a sovversivi o, su un piano più generale, servirsi dei criminali per sorvegliare e contrastare i criminali più pericolosi»”.

Stando al commento, l’autore “è attento a cogliere le connessioni coeve con i ‘piani alti’ della politica, le sedi istituzionali, la lotta fra schieramenti, in un quadro come quello dell’unificazione e dei primi anni dell’Unità”.

Mi sembra di capire, quindi, che si confermi il principio secondo cui la “mafia” sia un prodotto dello Stato italiano o comunque esterno alla Sicilia (come  avevo scritto qualche tempo fa).

Lo storico palermitano, inoltre, mostrerebbe come “camorra e mafia sono prima di tutto delle costruzioni fittizie, realizzate da una parte dai tutori dell’ordine e dall’altra dagli scrittori” e che “uomini politici e di cultura collaborano così a forgiare un’idea destinata ad affermarsi, tanto più che essa riscuote grande successo anche tra quei delinquenti che pretende di descrivere.”

Il testo tratta il primo trentennio dello Stato italiano, ma queste torbide pratiche sembrano le stesse attuate anche successivamente arrivando ai nostri giorni.

Mi vengono in mente i recenti episodi della cosiddetta “mafia dei Nebrodi” o “dei pascoli” che hanno visto protagonista il presidente del Parco dei Nebrodi, Antoci, e nella cui vicenda si sono inseriti vari personaggi che si autodefiniscono antimafiosi, facendo di un episodio grave, ma di cui non sono ancora chiare le dinamiche (due colpi di fucile sparati su una macchina blindata) – che in altre latitudini avrebbe fatto pensare ad un gesto isolato di qualche pazzo o delinquente di basso rango – il tentativo di riaffermare che la Sicilia sia sotto il controllo mafioso e che esso sia opposto alle istituzioni italiane. Dopo qualche settimana di fango buttato a livello mediatico su persone e territori, con la richiesta anche di intervento dell’esercito, non si è saputo, e non si è fatto, più nulla.

Oppure come la riproposizione – puntuale in occasione di ogni anniversario di stragi di mafia – da parte del giornale Limes di un articolo che ci mostra – non si sa su quali basi – come la Sicilia sia divisa in vari “mandamenti” facenti tutti capo a “Cosa Nostra”, attribuendole così caratteristiche tipiche di un’organizzazione unitaria, centralizzata e gerarchica che controlla l’Isola.

Per Limes il cercare convincere le persone, e in prima istanza i siciliani, che la Sicilia sia controllata dalla “mafia” sembra una vera e propria missione a vedere dal numero di articoli dedicati a questo argomento.

Tornando al libro di Benigno, insomma, credo che valga la pena leggerlo.

Sul sito di Einadi trovate l’introduzione.

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